Il linguaggio

Quando una persona parla, si esprime, rivela non solo la propria padronanza nell'articolazione dei suoni più o meno complessi ma anche (e soprattutto) la capacità di formulare pensieri e opinioni circa ciò che la circonda o ciò che vive in prima persona in quanto "essere" capace di provare sentimenti, emozioni, etc. Da questo è facile che si evinca la convinzione che la parola è garanzia di pensiero ed insieme sua prima ed unica espressione; l'espressione vocale viene ad identificarsi, a coincidere con ciò che viene espresso con le parole, cosicché una difficoltà nel linguaggio (leggi: nell'articolare correttamente le parole) rivela, secondo questa logica, un ritardo cognitivo.
I sordi sono da sempre vittima di questo pregiudizio il quale si manifesta prestissimo in particolar modo nelle modalità di educazione del bambino sordo; "globalmente la scuola non conosce la peculiarità dell'handicap uditivo che deriva da un deficit sensoriale" e che non comporta a priori un ritardo cognitivo: "si compromettono a priori le capacità cognitive del bambino (...)  e questo porta gli operatori scolastici ad accomunare handicap uditivo e handicap precognitivo e a considerare il bambino sordo come un bambino che inevitabilmente presenta turbe comportamentali." (L. Pagliari Rampelli, Indagine sulla storia personale riabilitativa dell'alunno sordo, in Atti del Convegno "Il problema dei sordi e la scuola". Domus Pacis, Roma 10-11 febbraio 1988. Istituto Gualandi. Bologna. 1988, p.117.).


La parola è garanzia di pensiero?


"Il linguaggio è strumento privilegiato del pensiero, ma il pensiero senza linguaggio è possibile." (Studi di Furth, 1971)
Nella sfera cognitiva, la presunta inferiorità dei sordi rispetto agli udenti deriva da presupposti fondati più su ipotesi generiche che su risultati di ricerche. Partendo infatti dall'assunto che linguaggio e pensiero sono interdipendenti, ai sordi prelinguistici, per tanto tempo ritenuti a torto "privi di linguaggio",  è stato spesso attribuito un deficit cognitivo tale da limitare l'acquisizione delle capacità di ragionare, di concettualizzare e di astrarre.
La capacità di usare il linguaggio verbale è stata, quindi, ritenuta la misura dell'intelligenza: gli udenti, infatti, dovendo usare un linguaggio semplice per comunicare con i sordi, concludevano che questi ultimi erano capaci di pensiero astratto. Per contrastare queste affermazioni svalutative e dimostrare che i sordi sono forniti di potenzialità cognitive pari a quelle degli udenti, si è reso necessario modificare, in primo luogo, la convinzione errata che la mancata o inadeguata acquisizione di una lingua verbale implichi la "privazione del linguaggio". Può in effetti accadere che, in determinati contesti culturali, la competenza nella lingua parlata e scritta favorisca il pensiero astratto, poiché rende possibile la definizione precisa dei termini, il richiamo di contenuti già acquisiti e la consapevolezza degli elementi logici e persuasivi del ragionamento. Sembra però che, nonostante questi effetti positivi sullo sviluppo del pensiero astratto, l'abilità linguistica non produca, di per sé, alcun incremento delle capacità cognitive. Deve essere riconosciuto a Furth (1971) il merito di aver affrontato lo studio sul pensiero dei sordi attraverso procedimenti realmente sperimentali. A suo avviso, esistono due approcci diversi allo studio del rapporto fra linguaggio verbale e pensiero: il primo è fondato sul presupposto che tale rapporto è necessario e implica, quindi, una differenza significativa fra la struttura cognitiva dei sordi e quella degli udenti. I sostenitori di questa ipotesi impiegano generalmente test verbali e giungono alla conclusione ovvia che in questo tipo di compiti i sordi sono inferiori agli udenti. Quasi tutti i test che misurano le capacità cognitive sono, infatti, basati sulle capacità linguistiche e quei pochi non verbali che sono standardizzati non illuminano con sufficiente chiarezza l'abilità di pensiero e di ragionamento. Il secondo approccio allo studio del rapporto fra linguaggio e pensiero è quello adottato dallo stesso Furth e consiste nel non aspettarsi differenze nelle strutture cognitive di sordi e di udenti, sulla base dell'assunto che il pensiero non è necessariamente verbale. Il ricercatore ritiene infatti che l'inferiorità dei sordi rispetto agli udenti nella concettualizzazione o nell'astrazione sia fondata su un ritardo nel comportamento linguistico e sul presupposto che il pensiero astratto o concettuale si identifichi con il pensiero in termini verbali.
In effetti, esiste una relazione necessaria fra pensiero e linguaggio. Non è immaginabile un linguaggio senza pensiero che lo preceda, dal momento che l'esperienza di un oggetto è condizione dalla quale scaturisce la capacità di dominarlo; in altre parole, un fenomeno e il suo significato precedono, nel tempo, i simboli che lo rappresentano. Il pensiero, pertanto, ha bisogno di rappresentazione e, quindi, di simboli, ma non necessariamente del sistema di simboli e di regole nella relazione costituita dal linguaggio verbale.
In conclusione, anche se il linguaggio è lo strumento privilegiato del pensiero, un pensiero senza linguaggio verbale è possibile. (M.L. Favia e S. Maragna, 1995, pp.36-40).
L'attività cognitiva dell'individuo dunque non è affatto compromessa direttamente da una incompetenza linguistica; sono le cause di quest'ultima (insufficienza di stimoli ambientali, isolamento affettivo, deficit uditivo , etc) che non favoriscono il normale sviluppo psico-affettivo del bambino e, quindi, la maturità linguistica.

Confronto fra udenti e non

"Il pensiero cresce e si evolve attraverso il contatto diretto con l'ambiente, indipendentemente dalla disponibilità di un sistema simbolico linguistico: la dimostrazione di questa ipotesi ci viene offerta da una serie di esperimenti dai quali risulta che l'intelligenza dei sordi, linguisticamente insufficienti, è sostanzialmente simile a quella degli udenti quanto a sviluppo e a maturità. (Furth, 1971).
In alcuni esperimenti particolari e nei compiti "verbali" il rendimento dei sordi è inferiore, ma questo è imputabile all'influenza delle "abitudini linguistiche", espressione con la quale ci si vuole riferire alla capacità che il bambino acquista di servirsi di un termine verbale in associazioni linguistiche. Quest'abilità, unita all'esperienza, favorisce gli udenti, l'insufficienza linguistica provoca generalmente una carenza nelle esperienze e nell'acquisizione delle informazioni e, quindi, una scarsa curiosità intellettiva.
Spesso lo sviluppo del bambino sordo è influenzato negativamente da fattori socioambientali sfavorevoli. Secondo Furth, questa inferiorità risulta evidente non nell'esercizio della capacità di comprensione o nei compiti logici, ma nei compiti che richiedono la scoperta di un concetto o l'iniziativa spontanea. Facilmente, infatti, i sordi risultano rigidamente legati a un punto di vista e sono lenti nella scoperta: questo però non avviene perché essi non comprendono l'esistenza di altre possibilità, ma perché sono socialmente abituati a permanere in una situazione che sentono "sicura". L'ipotesi che Furth avanza è che le carenze esperienziali non sono inevitabili, perché a essi si potrebbe ovviare utilizzando metodi non verbali di comunicazione e di istruzione nei primi anni di vita, sia in famiglia che a scuola. L'uso di tali metodi potrebbe essere favorito dall'acquisizione della consapevolezza che il linguaggio verbale non è condizione dello sviluppo del pensiero. Furth conclude la sua ricerca affermando quanto segue:

- Il pensiero logico, intelligente, non ha bisogno del sostegno di un sistema simbolico, quale esiste nel linguaggio vivo della società.

- Il pensiero è senza dubbio un sistema interno, il modo che ogni persona ha di ordinare gerarchicamente dentro di sé la propria interazione con il mondo. Il sistema simbolico del linguaggio rispecchia e, in qualche modo, esprime tale organizzazione interna. Tuttavia, l'organizzazione interna dell'intelligenza non dipende dal sistema del linguaggio, al contrario, la comprensione e l'uso del linguaggio già pronto dipendono dalla struttura dell'intelligenza (Furth, 1971: 203)

Qualche anno più tardi, Furth (1980) ha occasione di affrontare direttamente la questione dello sviluppo del pensiero delle persone sorde, partendo da alcune osservazioni condotte su bambini rieducati con il metodo orale. Molti bambini - egli afferma - frequentano scuole speciali da quando hanno tre o quattro anni. Quando hanno otto anni, la maggior parte di loro è capace di leggere alcune parole e alcune semplici frasi. La differenza tuttavia, nella conoscenza linguistica tra qualsiasi bambino udente della stessa età e il bambino sordo è notevole. Il bambino udente conosce il linguaggio; egli cioè padroneggia l'intricata serie di regole linguistiche e un vocabolario di molte migliaia di parole e spontaneamente applica questa padronanza linguist in una infinita varietà di situazioni. Di fronte a questa ricca conoscenza non si può prendere in seria considerazione l'idea che questa abilità linguistica acquisita laboriosamente produrre nei bambini sordi ciò che il linguaggio del bambino udente si propone di realizzare. Se il linguaggio verbale fosse di vitale importanza per lo sviluppo dell'intelligenza di un bambino udente di otto anni, la relativa assenza di linguaggio verbale in un bambino sordo della stessa età dovrebbe danneggiare in modo essenziale il suo sviluppo intellettuale. "Ma, - dice Furth, - le cose non stanno così, come la nostra ricerca ha chiaramente dimostrato" (Furth, 1980: 104)
Se lo sviluppo del pensiero non è strettamente connesso alla presenza del linguaggio verbale, deve comunque essere ribadito che esso necessita di un "linguaggio", che viene avviato da un dialogo, da una comunicazione" ( ibid. pp. 40-42).

Comunicazione-reciprocità-scambio tra bambino e genitori.

Il passaggio da un mondo percettivo a un mondo concettuale - ricorda Sacks (1990) - è reso infatti possibile da un dialogo iniziale con i genitori, che viene in seguito interiorizzato e diventa il "parlare tra sé", il discorso interiore, esso consiste nel pensare attraverso significati puri e porta quindi alla conquista dei concetti e alla costruzione di un proprio mondo e di una propria identità. Ciò che avvia tutto questo processo è, però, il dialogo, il discorso "esterno": se ancora ce ne fosse bisogno, questa è un'ulteriore conferma dell'importanza della comunicazione precoce con i genitori, i quali spesso sono talmente occupati nell'insegnamento del linguaggio formale che non si preoccupano di instaurare con il figlio un rapporto più ricco e spontaneo.
Infatti, se i genitori udenti non sanno entrare in comunicazione con il figlio sordo o se usano forme di dialogo e di linguaggio rudimentali, essi ostacolano nel bambino il salto dalla comunicazione al pensiero, reso possibile da un dialogo "ricco di intenti comunicativi, di reciprocità, di domande del tipo giusto. (Sacks, 1990, 92).
I sordi prelinguistici hanno, quindi, le medesime capacità cognitive degli udenti e conseguono pari risultati nei compiti che non richiedono informazioni acquisite o abitudini linguistiche; quando lo sviluppo del pensiero è inadeguato, le cause dovrebbero essere ricercate nelle carenze esperienziali, imputabili però non solo alla distorsione della comunicazione in famiglia, ma anche alla mancanza di apprendimento "occasionale" dal sottofondo conversazionale nella vita quotidiana e dai mezzi di comunicazione di massa.
Si aggiunga a questo che l'istruzione impartita dalla scuola al bambino sordo è più limitata nei contenuti e nella quantità di informazioni rispetto a quella riservata ai coetanei udenti, perché gran parte del tempo scolastico è dedicato al linguaggio vocale a scapito dell'apprendimento di altre abilità e dell'ampliamento degli orizzonti culturali. L'instaurarsi di un ritardo nella sfera cognitiva può, quindi, essere evitato: alla famiglia e alla scuola spetta il compito di scegliere le modalità di comunicazione che consentano di trasmettere la maggiore quantità di contenuti nel minor tempo possibile e, soprattutto, senza eccessivi sforzi da parte del bambino, al fine da stimolarne la curiosità. (ibid. pp. 42-44).

Approfondiamo le seguenti aree di interesse relative al linguaggio:

L'acquisizione della lingua madre 

L'apprendimento del linguaggio