L'acquisizione della lingua madre
Il bambino sordo con genitori sordi: la comunicazione naturale
I bambini che nascono sordi, o che lo diventano nel periodo precedente l'acquisizione della lingua parlata, sono nel mondo circa lo 0.1%; di questi solo il 5% nasce in una famiglia in cui almeno uno dei genitori è sordo (alcuni Autori alzano la percentuale al 10%). Si può dunque dire che un bambino sordo figlio di genitori sordi costituisce una eccezione. Quando nasce questo bambino viene accolto normalmente in un contesto "pregno" di incondizionata accettazione: la sordità non è un'incognita e non lo è nemmeno la modalità attraverso la quale i genitori instaureranno il dialogo con il proprio figlio. I genitori, forti dell'esperienza, sanno che la lingua da loro usata, ossia quella che si serve dei canali intatti visivo e gestuale, è perfettamente adeguata per una comunicazione agevole e distesa in seno alla famiglia; il coinvolgimento del bambino in scambi comunicativi, attività e giochi, che rientra nel più classico menage familiare e che costituisce il primo contesto educativo, verrà dunque mediato prevalentemente - ma non solo - dai segni.
"Un bambino sordo, figlio di genitori sordi che hanno consapevolmente scelto di metterlo al mondo, presenta uno sviluppo socioaffettivo simile a quello dei suoi coetanei udenti. In primo luogo la scoperta della sua minorazione non provoca alcun trauma sui genitori e non rende necessaria alcuna trasformazione radicale del ritmo della vita familiare, come avviene quando i genitori sono udenti e impreparati ad accoglierlo. La comunicazione poi, non costituisce un ostacolo da superare e può essere instaurata in modo naturale fin dalla nascita; infatti i genitori sordi possono evitare al proprio figlio sordo l'insorgere delle difficoltà di interazione perché, per la loro esperienza personale, gli propongono scambi comunicativi, attività e giochi, basati prevalentemente sul canale visivo-gestuale. Quando questi scambi sono intensi e il dialogo, in particolare quello tra madre e figlio, è ricco, il bambino, oltre a sviluppare le capacità immaginative, acquisisce autonomia, sicurezza e, secondo Schlesinger (1988), anche una vivacità e una serenità di carattere destinati a restare stabili nel tempo." ( M.L. Favia e S. Maragna, 1995, p. 31).
V. Volterra commenta così la registrazione filmata di uno scambio tra una bambina sorda di due anni e il padre, anch'egli sordo: "E' interessante ritrovare nella comunicazione dei genitori sordi con il bambino sordo le stesse caratteristiche della comunicazione dei genitori udenti con i bambini udenti: come i genitori udenti con i bambini udenti usano un linguaggio molto ridondante, molto ripetitivo, in pratica molto povero, così i genitori sordi producono gesti molto diversi dalla lingua dei segni usata tra adulti, eseguendo gesti molto più ampi e in forma facilitata. Come chiamiamo BABY-TALK quello rivolto ai bambini udenti, così è un BABY-SIGN quello rivolto ai bambini sordi. I meccanismi dello scambio sono gli stessi: chiedono le cose, la fanno rispondere, vedono se il segno è giusto, le correggono le mani: ho visto madri modellare le mani dei loro bambini per la giusta configurazione di un segno." (V. Volterra, 1983, p.18).
Come le udenti, le madri sorde introducono il loro piccolo in un dialogo preverbale accompagnato anche da tutta una comunicazione verbale che dimostra quanto sia importante, nonché urgente per loro, il più precoce possibile ingresso del figlio nella lingua vocale. Esse stabiliscono una comunicazione totale ricorrendo a tutti i canali sensoriali possibili, ossia il tatto, la vista e l'udito; la necessità di questa stimolazione "a tutto tondo" può risultare ovvia qualora si consideri che tra la nascita e l'accertamento della sordità trascorrono giocoforza alcuni mesi, ed il negare a priori uno stimolo uditivo ad una bambino costituirebbe una scelta alquanto miope.
Le dinamiche che hanno luogo in questo contesto diadico possono essere dunque equiparate a quelle che si verificano tra un bambino ed una madre udenti: è in questo spazio relazionale condiviso infatti che il figlio viene a contatto con la lingua materna.
Che definizione dare a "lingua materna"? D. Bouvet suggerisce di rivolgere l'attenzione all'operato della madre, la quale offre la sua lingua in risposta a quella del bambino, dopo cioè aver riconosciuto la lingua di quest'ultimo e dopo avergli procurato il piacere di essere capito. La madre, in altre parole, accompagna il figlio da un linguaggio suo, proprio, particolare (che lei ben conosce essendo frutto anche della sua complicità) ad una lingua che è lingua di tutti. (cfr D. Bouvet, 1986.)
Alla luce dell'accezione data alla cosidetta lingua materna si può così sostenere che, nel caso di una mamma sorda col proprio figlio sordo, sarà il segnato ad emergere naturalmente dal reticolo polisensoriale sul quale poggiano i loro scambi comunicativi; rimane tuttavia da sottolineare il fatto che nella maggioranza dei casi le madri sorde beneficiano il figlio del bagno linguistico verbale rispondendo così a due precise esigenze del figlio stesso, che consistono:
a) nel pretendere uno stimolo linguistico chiaro, totalmente ricevibile e padroneggiabile, che gli permetta di maturare linguisticamente (quindi codificato in segni che sfruttano i canali visivo e gestuale)
b) nel cominciare ad acquisire dimistichezza con la lingua verbale, anche se questo corrisponde di fatto ad un primitivo approccio alla labiolettura.
"La madre offre (al figlio) i rudimenti della lingua vocale al fine di fargli percepire il fatto che avviene qualcosa di importante anche a livello delle labbra e della voce: questo comportamento delle madri sorde testimonia, d'altronde, in favore della normalità della persona sorda, relativamente alla sua capacità linguistica" (Ivi, p. 140).
Il bambino sordo con genitori udenti: l'importanza dell'intento comunicativo
Per almeno il 90% dei casi il bambino sordo è figlio di genitori udenti: questi, pur creando un ambiente caldo (affettivamente parlando) e stimolante, difficilmente riescono a trovare gli strumenti di comunicazione ideali per interagire con il bambino, a causa anche del senso di incolmabile inadeguatezza che quasi inevitabilmente li sorprende di fronte al deficit diagnosticato, tanto da essere ritenuto vano ed inefficace ai loro occhi ogni approccio linguistico.
"Quando in una famiglia di persone udenti nasce un bambino sordo, questi potrà trovarsi, a volte per anni se la diagnosi avviene in ritardo, in un ambiente inadeguato, o meglio impreparato, alle sue capacità. Scegliamo volutamente di parlare di capacità piuttosto che di "deficit" per sottolineare che (...) ai bambini sordi non manca la capacità di acquisire una lingua, ma solo quella di apprendere in modo spontaneo la lingua parlata, perché essa viaggia sulla modalità acustica deficitaria. Ne deriva che problemi relativi ad un normale sviluppo della comunicazione e del linguaggio (e gli eventuali problemi psicologici e cognitivi che possono scaturirne) non dipendono da un'incapacità insita nel bambino, ma piuttosto nell'ambiente, che non sa o non può trovare strumenti di comunicazione alternativi più adeguati al particolare tipo di deficit. Il bambino resta spesso così escluso, negli anni cruciali per l'emergere del linguaggio, dalla comunicazione linguistica verbale che gli adulti usano con lui e tra di loro, esclusione che causa problemi per l'acquisizione della lingua parlata in termini di tempo (ritardo) e di modi (devianza). Inoltre poiché nasce in una famiglia di persone udenti non viene nemmeno esposto alla lingua dei segni." (M.C. Caselli et al., Linguaggio e sordità, la Nuova Italia, Firenze, 1994, p.218)
"A proposito della comunicazione in famiglia, Schlesinger (1988) sostiene che non è determinante stabilire l'uso dei segni o della lingua parlata nel dialogo, anche se i segni facilitano, ovviamente, gli scambi comunicativi nei primi anni di vita, quando il piccolo sordo tende a servirsi spontaneamente del canale visivo. Quello che veramente conta è l'intento comunicativo, che si manifesta nella ricerca del dialogo: i genitori che non dialogano con i bambini, ma fanno monologhi davanti a loro, sono persone che, sentendosi impotenti di fronte alla sordità dei figli, esercitano su di loro un controllo eccessivo" (M.L. Favia e S. Maragna, Una scuola oltre le parole. Manuale per l'istruzione dei sordi. La Nuova Italia, Firenze, 1995, p.32).